I tre strumenti a disposizione degli HR per contrastare la carenza di professionalità
Si chiama skill shortage, ed è l’incubo di ogni Responsabile HR. Si tratta della mancanza di alcune competenze all’interno dell’azienda ossia, detto in altre parole, dell’impossibilità di riempire posti vacanti con professionalità adeguate.
Definito anche con il termine di mismatch, lo skill shortage è un fenomeno molto pericoloso capace di frenare, anche nel breve periodo, la crescita di un’azienda. Sono tanti, e di varia natura, i fattori che possono causarlo, tra cui la tecnologia, il contesto istituzionale e le dinamiche del mercato del lavoro, ma in questo articolo concentreremo la nostra attenzione su quelli posti sotto il diretto controllo dell’azienda. Adotteremo quindi la prospettiva del Responsabile delle Risorse Umane, e cercheremo di capire quali sono i tre principali strumenti interni con i quali le imprese possono contrastare lo skill shortage, e perché no anche prevenirlo.
Ovviamente, trattandosi di un problema di competenze, la prima arma a disposizione della funzione HR è la formazione. Secondo una recente ricerca Cranet, l’attenzione per la formazione e lo sviluppo delle risorse umane nelle aziende italiane sono cresciuti sensibilmente negli ultimi 5 anni. È in aumento, quindi, il numero di imprese che guardano alla formazione per ciò che essa è realmente: non un costo, ma un investimento di lungo periodo, che oltre ad aumentare il valore dell’impresa genera benefici per l’immagine aziendale e per la motivazione del personale.
Per questo motivo sono sempre di più le aziende che offrono ai propri dipendenti incentivi per frequentare corsi di aggiornamento, o percorsi formativi più o meno lunghi. Non è necessario che vi sia un collegamento diretto tra il ruolo ricoperto in azienda e il percorso di formazione, anzi molto spesso si incentiva la frequentazione di corsi estranei alla realtà aziendale, perché si vuole migliorare il work/life balance dei dipendenti e stimolarne creatività e pensiero laterale. La formazione può essere interna ed esterna. Rispetto alla prima, la seconda può rivelarsi più costosa, ma è indubbiamente capace di garantire uno standard qualitativo più alto e, nel lungo periodo, un maggiore ritorno di immagine.
Il secondo strumento pone al centro dell’attenzione i processi di recruiting aziendale. Per quanto diffuso, specialmente in questi anni di grandi trasformazioni, un’impresa sana dovrebbe imbattersi in problemi di skill shortage solo saltuariamente. Se questo invece accade con una certa regolarità è possibile che il problema stia più a monte, e più precisamente nei criteri che guidano la selezione del personale.
L’epoca che stiamo vivendo, quella della new economy e della “creative disruption” portata dalla digitalizzazione, fa sì che i posti di lavoro siano in costante mutamento, e che le mansioni abbiano orizzonti temporali sempre più ridotti. Secondo uno studio del World Economic Forum, la maggior parte delle professionalità più richieste al giorno d’oggi non esistevano 10 anni fa, e si stima che il 65% dei bambini che oggi frequentano la scuola primaria finirà per svolgere professioni ad oggi ancora sconosciute. Cosa significa tutto questo? Che più del sapere tecnico sono importanti le competenze trasversali, le cosiddette soft skills.
Leadership, pensiero critico, creatività e intelligenza emotiva. Secondo una ricerca Accenture sono questi i driver delle performance lavorative e le competenze che nessun robot (almeno per qualche tempo) sarà in grado di rimpiazzare. La disponibilità di queste soft skills è la migliore garanzia rispetto alla capacità aziendale di adattarsi in fretta ai naturali processi di cambiamento. Dal punto di vista del responsabile HR, pertanto, ciò significa che le competenze trasversali devono diventare i parametri su cui costruire le strategie di selezione del personale esterno e di sviluppo di quello interno.
Terzo, ma non ultimo in termini di importanza, è uno strumento che se ben utilizzato può prevenire lo skill shortage prima ancora che si verifichi. Stiamo parlando dell’employer branding, quell’insieme di strumenti e azioni a metà tra Marketing e Risorse Umane messe in atto per aumentare l’attrattività dell’impresa e richiamare i migliori talenti del mercato del lavoro. Se è vero che nell’economia della conoscenza ciò che distingue un’impresa dall’altra sono l’unicità e la non replicabilità delle persone che la compongono, occorre fare il possibile perché i nostri dipendenti si sentano veramente tali. Costruire un’esperienza aziendale coerente dal punto di vista valoriale, fondata sull’ascolto e sul coinvolgimento del personale, aumenta il senso di appartenenza delle risorse interne e migliora la percezione esterna dell’impresa. Questo aumenta la retention e l’attrattività dell’azienda, e riduce al minimo i rischi di skill shortage.
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